Cercare lavoro su internet significa, al giorno d’oggi, utilizzarlo come strumento di ricerca di un impiego tradizionale oppure, in forma piuttosto diffusa anche dalle nostre parti, orientarsi su forme di tele-lavoro.
Le opinioni sulle affidabilità dell’uno e dell’altro sono discordanti, tanto che è difficile o impossibile stabilire “in assoluto” quale delle due sia davvero migliore. Possiamo trovare un annuncio inaffidabile in entrambi i casi, del resto: tutto dipende dalla fiducia che accordiamo all’azienda, e dal fatto che la stessa proponga offerte chiare.
Esiste un nuovissimo fenomeno che si sta sviluppando, seppur con qualche tentennamento a mio avviso, nel panorama del lavoro su internet: mi riferisco al crowdsourcing. Ancora parzialmente ignorato dai media a larga diffusione (se non per qualche articolo che lo critica un po’ snobisticamente), tale fenomeno nella forma di micro-lavori sta conoscendo una progressiva espansione anche dalle nostre parti.
Mini-job: chi era costui?
Discutere nei forum di mini-job è, di fatto, un qualcosa che avviene in Italia almeno dal 2010, in forma forse ancora timida e poco marcata, e quasi sempre per “sentito dire”. Il perchè è presto detto: da un lato vi è una sorta di dubbio sull’effettiva legalità di proporre mini-lavori a pochi spiccioli, dall’altra in molti non hanno semplicemente capito perché mai ci si debba inserire in un mercato del genere.
Molte aziende, di fatto, lavorano apertamente in crowdsourcing, e (sperabilmente) pagano qualcosina in più le prestazioni effettuate. Questo, se da un lato fa tentennare il classico processo di acquisizione curriculare a cui siamo abituati, dall’altro si mostra come modello di business aperto che potrebbe avere delle potenzialità positive (il condizionale, dal mio punto di vista, è d’obbligo).
Ma qui parliamo quasi sempre di prestazioni d’opera per “lavori” ridicoli a prezzi altrettanto irrisori: quello che convince poco nel modello a “mini lavori”, di fatto, è legato a come le retribuzioni vengano distribuite. Veniamo al punto e cerchiamo di capire come sia possibile applicare Fiverr e Microworkers (i principali due siti di questo tipo) sia al mondo dell’ottimizzazione dei motori di ricerca che a quello della diffusione di un brand su un social network.
Come funziona il marketplace
Quando leggiamo in rete di offerte relative a minijob (detti a volte microwork, a seconda dei casi) ci riferiamo a dei mercati virtuali alimentati da “inserzionisti” (chiamati comunemente employer) che propongono degli annunci a pagamento all’interno dei vari siti. Non si tratta di offerte tradizionali, bensì di richieste di aiuto nel realizzare dei compiti che verranno poi soddisfatti in modo “puntuale” da vari “lavoratori” (worker). Ad esempio: potrei pensare di predisporre un mio annuncio per il compimento di alcuni incarichi su internet, tipicamente attività da svolgersi con il proprio browser come:
- pubblicare un articolo a tema,
- cliccare su un “Like”,
- commentare un video su Youtube, e via dicendo.
Una volta che i vari “impiegati” – i quali si autocandidano a compiere le mini-attività che più gradiscono – forniscono una prova dell’avvenuto compimento del lavoro, il budget coinvolto dall’inserzionista viene distribuito tra le persone che hanno dato il proprio contributo.
I siti, dal canto loro, prelevano una commissione sia sulle ricariche degli employer, sia sui prelievi che faranno i worker. Di fatto, gli altri guadagnano molto poco: cifre paragonabili ai vari siti-truffa e sistemi piramidali che spopolano sul web da almeno un decennio. Esiste una differenza sostanziale tra le forme di mini-lavoro che si possono compiere: su Fiverr i costi sono fissi (5 dollari per tutte le proposte), mentre su Microworkers variano a seconda dei casi. Provate ad aprire il primo: scorrete gli annunci per un po’ e vi renderete conto che potete trovare davvero di tutto. Per questa cifra potrò fare cose come: farmi disegnare una caricatura su richiesta, ricevere un’analisi dettagliata dei backlink del mio sito oppure altre attività decisamente più bizzarre.
Un esempio? Farsi inviare un video promozionale personalizzato da un sedicente ninja, proprio lo stesso ninja che Webhouse vi ha gentilmente offerto ieri! Questo, per la verità, lo trovo in generale molto interessante poichè, se usato con criterio, potrebbe conferire potenziale “viralità” alla mia attività sul web e permettere ai piccoli imprenditori di “sfondare” la propria nicchia con qualcosa di veramente originale. Più o meno al costo di un pacchetto di sigarette.
Del resto non finisce qui: una sezione di Fiverr è dedicata specificatamente al social marketing, ovvero attività come:
- commissionare un testimonial che presenti favorevolmente un prodotto;
- acquistare decine di migliaia di follower su Twitter;
- reperire migliaia di utenti a tema su un certo argomento per Pinterest.
Vi è per caso suonato in testa un campanello di allarme? Poter “commissionare un testimonial che presenti favorevolmente un prodotto” è un’arma che finirà per falsare, spesso in totale malafede, il numero di conversioni che effettuate sul vostro sito. Questi metodi potrebbero finire per minare definitivamente la credibilità di servizi poco diffusi dalle nostre parti, come quello degli info-prodotti di ClickBank, che si basano quasi esclusivamente sul numero di testimonianze di qualità del prodotto che – almeno sulla carta – i clienti rilasciano spontaneamente.
Del resto è un qualcosa che per cinque dollari chiunque potrebbe essere tentato dal fare, e saranno poche le aziende (specialmente piccole) che non cederanno a questa insana tentazione. A quel punto scatta l’interrogativo: cosa potrà distinguere, tra qualche anno, un testimonial reale da uno comprato a meno di 5 € ?
Mi sembra di intravedere l’espressione schifata di molti (…non tutti, credo), specialmente se “puristi” di questo settore; comprendo pienamente le loro perplessità, e mi chiedo a questo punto se possa esistere una tecnica più a buon mercato di questa. Ebbene, esiste eccome: Microworkers, infatti, permette di commissionare micro-job a pochi centesimi, e per farvi rendere conto della cosa ho affiancato all’articolo una screenshot che ha quasi dell’incredibile. Volete 100 follower? Li pagate mediamente 0.12$ l’uno: magari non capiscono neanche cosa facciate col vostro profilo Twitter, ma che importa… avere tanti follower vi farà passare per un vero “guru” anche se non lo siete neanche di striscio.
Rincaro la dose: volete un “pollice su” per un video di Youtube, anche se fa schifo e non dà valore aggiunto di alcun genere? Perfetto, vi costa solo 0.10$ a click. Dal canto loro, ci saranno tanto poveracci – uso questo termine senza offesa, ovviamente – che non aspettano altro che di “guadagnare” quei pochi spiccioli facendo azioni del genere senza neanche pensarci. E così via: una registrazione forzosa su un sito può costarvi da 0.20 $ a circa un dollaro e 50, mentre un bookmark su Digg solitamente è più economico (0.10$). Vuoi mettere la comodità?
Cambia il modo di lavorare… per sempre?
Per i professionisti del web cosa potrebbe implicare tutto questo? In primis, finisce per crollare il mito del social come strumento “autentico“, e questo è uno degli aspetti più pesanti secondo me. Leggo spesso di blogger e aziende di marketing italiane che osannano i social come gli unici veri totem da adorare, e ho sempre visto con sospetto questo atteggiamento. Falsare un Like di Facebook è una cosa che può suonare anomala, ma che potrebbe essere usata illecitamente durante i vari contest, ad esempio, o per far illudere il nostro cliente che il suo brand piaccia tantissimo.
Non ci sarà modo di distinguere, a quel punto, un fan reale da uno che ha cliccato sul bottone blu solo perchè è stato pagato per farlo. Secondariamente, mi sembra preoccupante poter comprare backlink a prezzi così stracciati, quando normalmente li pagheremmo molto di più. Non voglio dire che sia necessario spendere soldi in queste pratiche, tutt’altro: mi sembra preoccupante, piuttosto, che moltissimi potrebbero usare questi strumenti in totale incoscienza, e finire per accantonare altre strategie. E i contenuti, poi? Chi troverà conveniente curare testo e immagini sul serio (che costa tempo e fatica), se posso farmi recensire positivamente pagando a prezzi stracciati una persona “X” per farlo? Sono dilemmi che porteranno il mercato in direzioni totalmente imprevedibili, a mio parere, e lavorare in completa trasparenza sarà sempre più difficile per tutti.
Questo nuovo mercato non conosce ancora un vero e proprio sviluppo in Italia, se non per qualche “meteora” che ha già capito l’andazzo e si sta attrezzando di conseguenza. Del resto, guarda caso, ci sono vari domini con estensione .IT tipo “minijob“, “microjob” e via dicendo che sono già stati acquistati ma non sembrano funzionare, attualmente. Vedremo quello che succede in futuro, ma la sensazione è che il gioco diventerà sempre più sporco.